Lo dovrebbero chiudere in delle bottigliette e venderlo questo silenzio, penso ogni volta.
Tipo arbre magique, da mettere in macchina per ovattarsi le orecchie.
Ma subito dopo mi convinco che sta bene dove sta.
Qui, libero, sotto il Monte Bove, per chi volesse raggiungerlo.
E quando lo raggiungo è sempre come la prima volta: bello, pesante, pauroso.
Mi ci ritrovo dentro e non me ne accorgo. Sento i battiti del cuore e le cadenze dei respiri. Dopo un po’ smetto di volerle sentire – le cadenze dei respiri – e allora comincio a camminare per aggiungere e sottrarre a quel vuoto che percorro.
Casali: una chiesa e poche abitazioni che si arrampicano sulla montagna, un rifugio in cerca di gestione, le pecore al pascolo e una lingua di terra che sembra accompagnarti verso l’orizzonte.
Un vecchio se ne sta seduto su una panchina e si gode il sole. Gira appena la testa, quando sente i miei passi entrare nel suo silenzio.
“Salve”, lo anticipo – che in montagna è l’abbreviazione di un sacco di cose: “vengo in pace”, “perdonami se disturbo il tuo silenzio”, o semplicemente “salve”.
“Sa-l-ve”- mi risponde lui stancamente, poggiandosi sulle lettere fino a schiacciarle – “Si sta bene”.
“Già.”. Respiro.
“Speriamo che non vene la neve. Non me piace la neve, anche se duvria fa be’ a checcosa”, mi guarda.
“All’anima.”, rispondo io, ma lui non mi sente, chiude gli occhi e torna a farsi scaldare il viso dal sole.
Io proseguo nella mia passeggiata senza meta in luoghi familiari.
Passeggio, torno indietro, ripercorro, vado avanti, prendo la macchina, ascolto la musica, spengo la musica.
A Castelsantangelo sul Nera entro in un caffè. L’unico cliente si desta e si toglie il cappello per salutarmi. Sfoggia anche un sorriso languido che quasi mi fa commuovere e mi anticipa nel saluto: “Salve!”.
“Salve, buongiorno”, dico io, un po’ a lui e un po’ alla proprietaria, che sta controllando furtivamente il suo aspetto allo specchio.
“Un caffè”, dico.
“Subito, subito!”, mi fa lei.
Il signore alle mie spalle continua a guardarmi. Lo so, lo vedo riflesso sullo specchio che sta dietro al bancone, insieme alla foto di una volpe in mezzo alla neve con scritto: Piana di Castelluccio, 2004.
“Da dove viene?”, mi chiede il signore, che nel mentre si è rimesso il cappello ma non ha smesso di sorridere neanche per un momento.
“Macerata”, dico.
“Ah, Macerata! Me la ricordo quando venivo insieme a Umberto e Mauro. Ho un ricordo bello di Macerata.”.
La signora intanto ci guarda e sorride. Sta aspettando il momento adatto per inserirsi nella discussione senza sembrare invadente. Io le sorrido. Non sono bravo come loro due nei sorrisi.
Il signore intanto continua a parlare di aneddoti e persone che non conosco, fregandosene del fatto che io non sappia nulla di quelle storie o di quelle persone; solo per la voglia di raccontarle a qualcuno, dopo chissà quanto tempo. Io le ascolto e sorseggio il caffè, con calma.
“La montagna è finita. Finita! Negli anni ’70 eravamo 2000 e adè simo rmaste 247 anime. Io so stato fortunatu che li figli mia ha troato tutti a fadigà in comune: unu a Visso e unu a Ussita.”.
“Mi figlia lavora a Macerata” – interviene finalmente la signora – “Ogni tanto ce vado a trovalla, ma staco meglio qui. Me pare de non sapè camminà co tutte ‘lle macchine. Me gira la testa, me pare de esse tonta!”.
“Un tempo li giovani potea troà qui la fadiga, ma moh ce sta pochi posti e toccà che vanno via. Se je va vè a Camerì, sennò tocca ‘rrià a Tolentino o a Macerata. Quissi ce tassa, non manda in pensione li vecchi e li giovani quando cumincia a fadigà? Mai! Adè diventati tutti rammolliti, non se piega più gnisciù. Quando li giovani non se piega più adè un macello.”.
Finisco il caffè.
Prima di uscire stringo la mano di entrambi. Il signore ha un’artrosi che gli ha deformato quasi tutte le dita, ma la stretta è ancora decisa.
“Arrivederci”, ci diciamo.
Chissà quando, chissà dove.
29.12.2015
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