Di fronte alla morte ho sempre trovato il modo di scrivere.
Forse è un tentativo di metabolizzarla o fuggirla.
Ma più probabilmente nessuna delle due cose.
Mi limito a farci a testate.
In fondo credo di invidiarla anche, la morte.
Quando ti giunge la notizia di una sua venuta e non te la scrolli più di dosso, e pensi solo a lei per giornate intere.
E ti riaccende i ricordi.
E ti fa male.
Oggi ho saputo della morte di una donna.
L’ho conosciuta quella donna e non me la ricordo affatto.
Però era la madre di una ragazza di cui mi ero innamorato.
Avevo quindici anni.
Eravamo andati in settimana bianca insieme al solito gruppo di persone.
Erano sempre gli stessi, più lei.
Era venuta insieme alla madre e al fratello più piccolo.
Aveva la camminata discreta, il naso all’insù e le unghie colorate da donna.
Non veniva mai a sciare.
Io ci andavo sempre. Adoravo sciare. Quell’anno però sarei rimasto volentieri in albergo a scoprire che cosa faceva lei mentre tutti gli altri erano impegnati a scendere la montagna.
Ogni giornata si trascinava fino al ritorno in albergo, fino alla cena, fino al dopo cene e al saluto prima di rientrare in camera.
L’attesa.
L’amore.
Senza saperlo.
Non l’ho più vista.
Non mi è capitato quasi mai di ripensare a lei.
Poi la morte è entrata nella sua vita e di colpo io mi sono ritrovato a battere dei tasti seduto al tavolino della hall di un albergo.
Fuori la notte protegge la neve che di giorno il sole scioglie e fa gocciare rumorosamente dalle grondaie, mentre ripenso a quant’era semplice la tristezza provata dodici anni prima durante quel viaggio in corriera verso casa.
Le tenevo la mano, senza guardarla.
Lei condivideva con me le canzoni di Battisti.
23.03.2016
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